giovedì 19 aprile 2012

Due righe su "Diaz"

Sono andato a vedere "Diaz", il film che, traendo la sceneggiatura dagli atti processuali, racconta il susseguirsi degli eventi da poco dopo la morte di Carlo Giuliani alle torture subite dai manifestanti nella caserma di Bolzaneto, in occasione del G8 di Genova del 2001. Ho fatto passare qualche giorno prima di mettermi su queste virtuali pagine, la ragione principale è che volevo far passare un po' di emozione in modo da non eccedere in nessun senso nella scrittura.

Diaz è un film, non un documentario, quindi racconta una storia stando il più fedele possibile alla sentenza d'appello dell'anno scorso che ha condannato alcuni dei poliziotti responsabili, ma lo fa in maniera semplice, superficiale, quasi asettica. Voglio proprio partire dall'unica critica che mi sento di fare al film: non si capisce il perché, di niente. Si comincia vedendo dei black block che spaccano vetrine, gratuitamente, si continua con poliziotti che picchiano e torturano, gratuitamente. Insomma è un film che da come per scontato che la gente si ricordi bene cosa fu quel G8, cosa ci facevano 300000 manifestanti a Genova, in che occasione sono comparsi i black block, perché questi misteriosi figuri fossero liberi di devastare la città, perché ci fossero tanti manifestanti con ferite di varia gravità, perché si è deciso, ma soprattutto chi ha deciso (e poi insabbiato), di irrompere di notte in una scuola dormitorio e perché in quella scuola sia successo il finimondo. Succede e basta. Te lo sputa addosso, fotogramma dopo fotogramma. Ma alcuni di quelli in sala erano molto piccoli a quel tempo (io stesso lo ero, ne ho vaghi ricordi, sebbene mi sia sempre molto interessato alla vicenda). Se si vuole fare un film che lasci un ricordo, un monito, di quelle 36 ore di follia omicida da parte dello Stato, forse, valeva la pena approfondire un minimo la cosa, almeno per stimolare la curiosità. In questo senso ha ragione chi dice che questo film poteva essere fatto anche nel 2002.

Ma supponiamo che ci si ricordi bene di tutto e si vada a vedere il film. Si vedranno immagini che nessuno può aver visto, a parte carnefici e vittime, perché quei fatti, così brutali, sono gli unici non ripresi dalle telecamere. Il regista è abile nel mischiare qualche immagine di repertorio di quei giorni con le riprese del film, racconta fatti veri e non devi capire cosa è vero e cosa è recitato. E ci riesce. Fin troppo. Ci si ritrova in una sala in cui tutti, nessuno escluso, si ammutoliscono, anche durante l'intervallo, anche dopo che è tutto finito. Durante il film senti solo le urla della pellicola, agghiaccianti, i colpi sordi dei calci e dei manganelli di Stato ed i respiri profondi di chi riusciva a non piangere. E il giorno dopo ti alzi dalla tua notte quasi insonne e ti fai una doccia, sperando di lavarti via il sangue da dentro, la crudeltà dalla pelle. Non ci riesci come vorresti.

La violenza di quelle immagini, che sai essere vera, ne hai sentito le testimonianze in radio e nelle aule di tribunale, è una violenza primitiva, gratuita, che ti fa implorare dentro di te che la smettano, che si accontentino. Una violenza che non so descrivere, che fa paura, paura vera, non quelle cazzate comiche dei film di presunto orrore. Trasmette le emozioni giuste, con qualche trucco narrativo, in modo che anche lo spettatore abbia sempre in testa che "ormai è finito tutto". Perché è così che si sentivano loro, il G8 era finito, le violenze erano finite, era perfino morto un ragazzo, per la strada. E dormivano, perché oramai era tutto finito. Vedere dall'interno l'immagine di quei caschi blu che entrano nella scuola e massacrano di botte qualunque cosa si muovesse, che infieriscono su chi ha già perso conoscenza, che ammucchiano come ammassi di carne i corpi dei manifestanti svenuti e sanguinanti ti segna dentro, ti da rabbia al punto che ti trovi ad odiare anche il poliziotto che mostra una presunta umanità, perché è complice del massacro, ne è artefice. Anche a quel punto ti ripeti che è tutto finito, sono stati picchiati e, chi non è finito in terapia intensiva, arrestati. Ma no, lì vedi che marchiano con una x sul volto chi dovrà finire a Bolzaneto, dove la violenza è disumana, psicologica oltre che fisica, e l'orrore aumenta al punto da farti star male, ti prende il respiro, lo stomaco.

Alcuni episodi di violenza, come ha anche ammesso il regista, sono stati tolti dal film perché "l'avrebbero reso poco credibile". Ha ragione, perché già così non ci vuoi credere, è stato talmente ingiusto, talmente gratuito, che anche se sono cose che sai, non ci vuoi credere. Quindi è importante che si veda quel film, sapendo che racconta una verità (perché su questo non ci sono dubbi), sebbene sia asettica e superficiale. È importante perché non voglio pensare che certe immagini escano dalla memoria collettiva come vorrebbe chi era al potere quel giorno, che sono gli stessi, fascisti o fulminati sulla via di Damasco, di adesso.

La più grave sospensione dei diritti umani in un Paese occidentale dalla seconda guerra mondiale (Amnesty International)

sabato 14 aprile 2012

Milano ed un ricordo per capirla di più

Recentemente ho visto "Romanzo di una strage", film tratto da un libro di Cucchiarelli, "Il segreto di Piazza Fontana", in cui ridà un alito di vita alla teoria della doppia bomba. Film molto ben fatto, sebbene ognuno di voi possa trovare copiose critiche in giro per la rete, ma credo che i film vadano anche presi per quello che sono, film. Vedendolo ho ripensato a quel sondaggio, fatto un paio d'anni fa al massimo, in cui è emerso che la stragrande maggioranza degli studenti dei licei milanesi è convinta che la responsabilità di quel massacro sia delle Brigate Rosse, il resto attribuiva il tutto alla mafia e una coda statistica si distribuiva tra gli anarchici, i fascisti e i servizi segreti. La cosa sorprende (oddio, fino ad un certo punto, visto che pare sia vietato mettere nei programmi scolastici ogni evento successivo al '48) perché è una cosa successa nella loro città, che ha dato il via ad una serie di eventi nella loro città, che determina il carattere della loro città.
Dunque ho pensato di mettere un po' insieme le idee e fare un piccolo tour (che potete seguire da qui) tra i luoghi della storia recente di Milano, anche solo come superficiale promemoria.

Se dovessi andare a Milano, ora che non ci vivo più, prenderei la bici e probabilmente passerei da Sesto San Giovanni. Si, il tour di Milano comincia a Sesto, perché da qualche parte bisogna pur cominciare e si sa che Milano non ha confini, circondata e compenetrata da una miriade di paesini dormitorio che rendono la città infinitamente più grande di quella che è, con una popolazione che varia a seconda dell'orario della giornata, mentre inspira ed espira persone, con frenetica costanza. Sesto, la Stalingrado d'Italia, medaglia d'oro, come Milano, alla resistenza e per la maggior parte delle persone è poco più del luogo da cui parte la metro rossa. L'episodio di Sesto che mi viene in mente è quella notte tra il 7 e l'8 dicembre del 1970, la notte del Golpe Borghese, la notte in cui i fascisti guidati dal principe Borghese occuparono militarmente (salvo poi annullare tutto per motivi a me ignoti) luoghi strategici e istituzionali. Il grosso venne fatto a Roma, ma un centinaio di uomini della forestale occuparono proprio Sesto, la Stalingrado d'Italia.
Da Sesto, con la mia metaforica bici, posso prendere viale Monza e iniziare ad addentrarmi in città. Di chilometri ne devo fare 4, tutto dritto, tra semafori e inquinamento, il tempo scandito dalle fermate della linea rossa. Proprio grazie a queste fermate so che tra Rovereto e Pasteur devo girare a sinistra e cercare via Leoncavallo, sede storica dell'omonimo centro sociale milanese, lì vicino nel marzo del 1978, in via Mancinelli, i fascisti uccisero in un atto di guerra (una guerra non contro di loro, contro la città) Fausto e Iaio, due ragazzi, 18 anni, due storie, una rabbia che la città ha sopportato, una rabbia che a scrivere queste due superficiali righe mi sale da dietro la schiena e mi fa tremare le mani. Tornando su viale Monza, poco più in là, c'è Piazzale Loreto, dove i fascisti sono stati fatti penzolare, appesi per i piedi.
Proseguo verso il centro, su corso Buenos Aires, dove c'era una volta la sede di Radio Popolare, storica radio della sinistra milanese. In quella radio c'è un pezzo di storia della città, al di là della carica artistica e giornalistica che è passata per quegli studi, quei microfoni hanno raccontato gli eventi, dagli anni di piombo ad oggi, le dirette dalle manifestazioni, le campagne di informazione, le interviste in esclusiva, i 9 radiogiornali al giorno.
Corso Buenos Aires finisce dopo 2 km e io mi fermo dopo i giardini di porta Venezia, in via Palestro, dove nel luglio del 1993 un'autobomba mafiosa davanti al museo di arte contemporanea uccise tre vigili del fuoco, un vigile urbano e un immigrato che dormiva su una panchina. Quella strage la ricordo bene e la porto come mia piccola cicatrice. La città dimenticò troppo in fretta la presenza della mafia sul territorio, ma ogni anno, nella notte di fine luglio che fa da anniversario, i pompieri si trovano lì e fanno andare in silenzio i loro lampeggianti, a ricordare gli innocenti uccisi dalla mafia, a Milano, in pieno centro.
Proseguo in via Palestro per non più di 600 metri fino ad incontrare via Fatebenefratelli, per me sinonimo di Questura di Milano. Quel luogo ha molte più storie di sangue di quelle che dovrebbe avere un edificio adibito al servizio e alla sicurezza del cittadino. Nella notte del 15 dicembre 1969, dopo 3 giorni di interrogatorio guidato dal commissario Calabresi, veniva defenestrato e quindi ucciso il ferroviere anarchico Giuseppe Pinelli, morto innocente, mentre indagavano sulla strage fascista di Piazza Fontana in cui 3 giorni prima persero la vita 17 persone. Come rappresaglia per quell'omicidio (per cui la questura non venne ritenuta responsabile), nel maggio del 1972, le Brigate Rosse uccisero il commissario Calabresi davanti alla sua abitazione, in via Cherubini. Un anno dopo, in quella Questura, mentre si ricordava l'omicidio, una bomba a mano anarchica uccise 4 persone. Per arrivare dove è morto Calabresi devo attraversare parco Sempione, che ora è luogo curato di sole e verde, ma per me rimarrà sempre il contenitore di tossici a 2 passi dal Duomo che era negli anni '90. Alché basta seguire corso Vercelli e si arriva lì, dove un uomo dello Stato, abbandonato dallo Stato, ha visto la sua esecuzione.
Torno sui miei passi, mi dirigo verso il Duomo, e passo per via Morozzo Della Rocca, dove nel luglio 1979 la mafia uccise l'avvocato Giorgio Ambrosoli, che stava indagando sul banchiere siciliano Michele Sindona. Altro omicidio mafioso, a due passi dal Duomo, che la città ha perso nelle pieghe della sua memoria.
Attraverso Piazza Duomo, piena delle sue formichine operose, ma solo dopo le 10 di mattina. Questo pezzo lo faccio a piedi, mi piace il selciato del centro, sentirlo sotto i piedi. Dal Duomo a Piazza Fontana sono 4 minuti, ogni volta che vado in centro cammino quei 4 minuti, a sentire la vibrazione dell'odio fascista che si fa sempre più grande, passo dopo passo. Piazza Fontana non ha nulla di particolare. Tagliata dal tram, una banca sulla destra con una lapide che non nota mai nessuno, una fontana e un'aiuola, che ho sempre visto illuminata, credo prenda luce tutto il giorno. Su quell'aiuola ci sono due targhe che ricordano Pinelli, il marmo anarchico che ne ricorda l'uccisione, la plastica istituzionale che ne ricorda la morte. Pinelli non se lo ricorda un po' nessuno, è un'indagine mezza insabbiata su cui si fa finta di niente, ma abitava nel mio quartiere e mi hanno insegnato, in quel quartiere, a ricordare le ingiustizie.
Non ho ancora conosciuto nessun milanese abbastanza vecchio da essere in grado di camminare a quei tempi, che non sia andato ai funerali delle vittime, in piazza Duomo. Non ho ancora conosciuto nessun milanese che non ricordi bene quel giorno e quegli applausi che mi hanno così dettagliatamente descritto.
Milano è anche e soprattutto piazza Fontana, dalla reazione della città, all'ingiustizia delle indagini, all'assoluzione (ma responsabilità fascista ben riconosciuta) degli imputati. A 5 minuti da lì c'è l'università, dove in quegl'anni si formava il gruppo di azione partigiana di Feltrinelli.
L'orrore di quel luogo mi fa venire voglia di bellezza, prendo via Torino per finire dopo un po' sui navigli. Oramai è sera, lampioni gialli, pavè. So che se proseguissi per un paio di chilometri mi troverei sulla destra la casa di Giorgio Gaber, il nostro poeta, un altro bel pezzo di città in uno dei posti più romantici della città.
Per tornare a casa la prendo molto larga e passo dalla mia università, una volta polo di vera grande eccellenza industriale, un luogo da operai, il luogo dove sono nate le Brigate Rosse, perché Milano è anche questo.

Queste cose non le ho studiate anche perché nessuno ha mai voluto insegnarmele (infatti può darsi siano sbagliate), queste cose me le ha raccontate la mia città e io provo a ricordarmele ogni volta che ci passo in mezzo. Milano è disseminata di lapidi e targhe che ricordano cosa è successo, dalle lotte partigiane al terrorismo, che spiegano perché i muri su cui sono appese grondano sangue. Milano ha sempre saputo reagire a quel sangue, è questo che la rende una bella città, è questo che la rende una città cui voglio bene. Magari di come stia vedendo svanire l'anima di Milano ne parliamo un'altra volta, sempre che i due di voi che han avuto la forza di arrivare fin qui esistano veramente.