martedì 4 novembre 2014

Intrappolato

È il momento. Disse ingoiando gli ultimi calmanti della giornata sotto la tenue luce dei lampioni che, pacati, si proponevano dalle tende tirate. Pensieri felici, pensieri tranquilli. Un rituale ormai consolidato, un rituale rivelatosi sempre inutile. Come andare a messa ogni domenica.

Senza sogni si muore, lentamente, il corpo ha bisogno di ricaricarsi, un riavvio cerebrale necessario, manco fossimo un'avanzata versione di Windows Vista. Ne era ben consapevole, per questo si forzava, nonostante tutto a rinchiudersi nella sua personalissima prigione ogni notte. Per sopravvivere. Letteralmente.

Il torpore, i muscoli rilassati, la mente sempre meno vigile. Un dolce scivolare nelle fauci del diavolo. Dannazione, qualunque cosa accada so che non è reale, è solo un sogno. Solo un sogno. Era sempre quello il suo ultimo pensiero, tutte le notti. A volte funzionava, la pratica aiuta a riconoscere il vissuto quando lo si rivive nella propria testa e, all'occorrenza, a saperne prendere le distanze. Non importa quanto realistica possa essere un'immagine, una parte di me è consapevole che io lì non c'ero, io questo ho solo immaginato di averlo vissuto e ora sto solo riproducendo quell'immagine artefatta, trasmessa dalla più potente scheda grafica in circolazione. Svegliati, non sei costretto a rimanere in quella casa. Svegliati.

Aprì gli occhi, cercando riferimenti di realtà, un appendino, la sua lampada, i lampioni, quella sensazione spiacevole sul collo tipica del sudore. Il battito torna normale, il fresco del frigorifero va ad infrangersi sulla calura corporea appena sprigionata. Tanto vale riposare un po', in un perenne dormiveglia in attesa della routine.

Ma non è mai così semplice, dopo settimane di prigionia, spolpato di ogni vigore emotivo, il cervello si spegne di nuovo, soffice tra i cuscini. Non è qualcosa di vissuto o immaginato, è qualcosa che sta accadendo ora. Non è reale. O quel telefono squilla sul serio, sarà meglio alzarsi. No, non ce la faceva proprio a forzare se stesso ad uscire da un incubo in divenire, pur consapevole che quella era l'unica altra opzione, una volta addormentato. In isolati momenti, tuttavia, si rendeva conto di vivere situazioni che potevano essere piegate al suo piacere e volere, che non necessariamente doveva subire quelle sbarre. Come criminali che riescono a reinventarsi secondini, riusciva sporadicamente ad esser padrone di quel sogno, a piegare il tormento in qualcosa di diverso, financo sadica vendetta verso quel diavolo. 

E se fossi in realtà sveglio?

Questo lo tormentava, in quei sogni che cominciavano con un suo risveglio e terminavano con il consolidato rituale di cui sopra. Il dubbio, non c'è nulla di più logorante. Erano immagini ed azioni assurde, ma ragionevoli. La sua condanna per un crimine non commesso era questa: trascorrere la giornata come un passeggero, incerto se ne fosse padrone o semplicemente spendesse il tempo a sbirciare sotto la sottana della vita. I sogni erano la prigione della sua mente, a prescindere dallo stato di veglia. Lo erano sempre stati, da aspettativa irraggiungibile dalle miserie della realtà a cinico, per nulla distaccato, sguardo su ogni possibilità passata e presente. 

Un inferno tanto personale, tanto consapevole della propria deflagrante potenza da rendere ogni altro problema piccolo, insignificante. Come se l'esperienza dell'orrore, con il suo traumatico bagaglio, i dubbi, le insicurezze, potesse in fondo dare quella spinta a riprendere a dar calci nelle palle della vita.

In quel momento si risvegliò, sudato. E andò a riaprire il frigorifero.

I'll see you in the next life, wake me up for meals

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